Insonnia, perdita di concentrazione, idee di morte. Ma anche perdita o aumento di peso e disinteresse. La psicoterapia è fondamentale per per la cura.
La depressione e i suoi sintomi
Sentirsi giù di corda, di cattivo umore, stanchi, scoraggiati, senza speranza. La depressione è un disturbo che riguarda soprattutto l’umore, e l’altro sintomo caratterizzante è la perdita di interesse. Oltre a questo, le persone che ne soffrono possono per esempio avere difficoltà di concentrazione o pensieri ricorrenti di morte, oppure insonnia. Potrebbero avere un aumento o una perdita di peso significativo, o ancora provare sentimenti di svalutazione e perdita di speranza verso il futuro.
Si tratta di sintomi cognitivi, emotivi, somatici e comportamentali talmente pervasivi che chi ne soffre non non riesce più a lavorare o a studiare, a iniziare e mantenere relazioni sociali e affettive, a provare piacere e interesse nelle attività che svolgeva in precedenza.
Gli eventi da cui la depressione può avere inizio sono valutati dalla persona in termini di perdita molto importante e soprattutto non accettabile.
Si può trattare di:
Un evento negativo di perdita (un lutto, la fine di una relazione, la perdita del lavoro, etc.).
Un evento positivo ma sempre valutato come perdita (la nascita di un figlio che “toglie libertà”, la laurea in cui si perde lo status di studente, etc.).
Una mancanza di eventi positivi per i quali ci si è impegnati tanto, come per esempio una promozione.
Gli episodi depressivi durano, nella maggior parte dei casi, qualche mese. Un tempo che può sembrare lunghissimo per la persona che lo vive e per i suoi cari.
Secondo il modello cognitivo di Beck della depressione tutte le persone hanno pensieri automatici, anche negativi. Tuttavia i pensieri automatici della persona che soffre di depressione hanno temi di perdita, fallimento, autocritica, insuccesso, incapacità, indegnità, non amabilità.
La cosiddetta”triade cognitiva”
Inoltre, i pensieri sono pervasi dalla visione negativa di sé, degli altri e del mondo, nota come Triade Cognitiva, ovvero:
La persona percepisce sé stessa come inadeguata.
Interpreta negativamente le proprie interazioni con l’ambiente circostante, descrivendole in termini di sconfitte, privazioni o denigrazioni. Tende a considerare gli attuali problemi come insolubili e le varie situazioni come insopportabili.
Il futuro è visto con pessimismo. La persona tende a prevedere frustrazioni e difficoltà come prolungamento di quelle attuali. Secondo lei nulla mai cambierà e la sconfitta è certa. Ciò porterà a non intraprendere nulla di nuovo.
Un’accurata indagine ha rilevato che tre quarti delle persone affette dal disturbo non riceve un trattamento adeguato (Young et al., 2001). La prima forma di trattamento, che può essere di psicoterapia e/o farmacologica, si dimostra utile nel 50-70% dei casi.
Perché circa la metà non ha benefici? Molto probabilmente si sospende il trattamento troppo presto, altri non ricevono un’adeguata terapia. La terapia cognitivo comportamentale è dimostrata tra le più efficaci nel trattamento del disturbo depressivo maggiore.
https://psithaka.com/wp-content/uploads/2021/10/psithaka-depressione.jpg8441500vinzhttps://psithaka.com/wp-content/uploads/2021/08/psithaka-fav-180x180.pngvinz2021-10-25 10:11:392021-10-25 10:13:33Cura la depressione con la terapia cognitivo comportamentale
Uno strumento utile per rielaborare vissuti disturbanti riconosciuto dall’OMS. Tramite la stimolazione dei due emisferi cerebrali si depotenziano i traumi.
L’EMDR è uno specifico metodo di psicoterapia utile per l’elaborazione di quei ricordi passati particolarmente stressanti o disturbanti. La sigla sta per Eye Movement Desensitization and Reprocessing. Attraverso la stimolazione alternata dei due emisferi cerebrali, può essere molto utile al paziente per affrontare il dolore derivante da eventi di vita traumatici.
Quando si applica il metodo EMDR
Chi ha sperimentato gravi esperienze quali lutti, pericolo per l’incolumità propria o dei propri cari, aggressioni fisiche o psicologiche, o ancora malattie, ha di fatto immagazzinato un fortissimo stress emotivo. Tale stress talvolta non si esaurisce con la durata temporale dell’evento stesso. E può prolungarsi per molto tempo a seguire, per mesi o anni.
A lungo andare, tale condizione può portare all’insorgenza di un Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD). È infatti molto frequente che chi ha avuto un trauma veda permanere nella sua vita gli effetti negativi di queste esperienze avverse risalenti al passato. È piuttosto comune che chi è affetto da questo disturbo riferisca di sperimentare dei flashbacks dell’evento traumatico, talvolta anche sogni, che rievocano sensazioni analoghe a quelle sperimentate durante l’evento stesso.
La persona può sentirsi in ansia, molto tesa, irritabile o incontrare difficoltà nel sonno: si tratta di stati psicologici di iper allerta dovuti alla necessità di mantenere un alto controllo sull’ambiente, per il timore di rivivere nuovamente condizioni avverse come quelle già vissute.
Gli effetti degli eventi traumatici
Tale timore può portare la persona traumatizzata a mettere in atto comportamenti di evitamento nei confronti di situazioni, persone o luoghi che avrebbero il potere di rievocare e far riemergere quelle emozioni tanto dolorose provate in passato.
Quando questi sintomi si fanno più intensi o invalidanti, significa che l’esperienza traumatica non è stata metabolizzata. O, per dirla in termini tecnici, non è stata integrata in modo adeguato attraverso i consueti canali di memoria. Ciò significa che il ricordo negativo, se non rielaborato adeguatamente, permane nella mente nel suo stato originale. Ponendo così la persona in un costante senso di allarme, come se abbassare la guardia comportasse un rischio di pericolo. In altri termini è come se i ricordi non metabolizzati continuassero a costituire un’ incessante fonte di stress.
La portata di questo stress dipende sia dall’entità dell’evento avverso che dalle caratteristiche personali di ciascuno. Qualcuno è più vulnerabile, qualcun altro può mostrare una maggiore resilienza. Tali soggettività dipendono sia dal tipo di predisposizione biologica e genetica, sia dalla nostra personale storia di vita. Pertanto siamo tutti diversi gli uni dagli altri.
Ciò gli consentirà di procedere poi con la desensibilizzazione e la rielaborazione del trauma attraverso degli specifici movimenti oculari. O con altre forme di stimolazione alternata che agiscono a livello neurofisiologico. In tal modo si offre finalmente al paziente la possibilità di andare a integrare la memoria traumatica.
È importante specificare che attraverso l’EMDR non si cerca di far rimuovere al paziente un ricordo traumatico. Piuttosto lo si accompagna verso una risoluzione adattiva del trauma, grazie all’integrazione della memoria disturbante all’interno di uno schema emotivo e cognitivo sano. Si riporta la persona a vivere nel qui ed ora, lasciando spazio ad un’accettazione piena e consapevole di ciò che è accaduto. Si va quindi a collocare l’evento negativo lì dove è avvenuto, ossia nel passato.
Il bambino mette in atto schemi comportamentali legati all’attaccamento con una figura significativa. Tali schemi avranno conseguenze sulla sua personalità
Contenuti:
La teoria dell’attaccamento
Schemi comportamentali del bambino
I modelli operativi interni
I pattern di attaccamento
Gli studi di Mary Ainsworth
Sotto-tipi di attaccamento
Conclusioni
La teoria dell’attaccamento
I principali contributi di John Bowlby (Londra, 1907-1990) riguardano le sue ipotesi su un sistema motivazionale che spinge il bambino ad una specifica relazione con la madre definita di “attaccamento”, ispirando nuovi metodi, concetti e modi di osservare i principali fenomeni relazionali dello sviluppo umano.
Le occasioni di formazione che portarono Bowlby all’interesse per lo sviluppo infantile furono principalmente due: l’esperienza di volontariato presso una casa di ragazzi disadattati e un incarico ricevuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità la quale, nel 1950, si propose di intraprendere uno studio sulle condizioni di salute mentale di bambini senza famiglia e affidati a istituti.
La ricerca venne affidata a Bowlby, allora Direttore del dipartimento “Child Guidance” della Tavistock Clinic di Londra. Egli si occupava già da anni di psicopatologia infantile a aveva pubblicato numerosi articoli trattando aspetti che riguardavano le influenze dell’ambiente sulla maturazione psicologica del bambino. Nel 1951 pubblicò una monografia richiestagli dall’OMS, con il titolo Maternal Care and Mental Health, dove vengono trattati i comportamenti di separazione dei bambini dalle loro madri, osservando gli effetti della deprivazione materna. Il libro venne pubblicato in Italia solo nel 1957 con il titolo Cure materne e igiene mentale del fanciullo.
Tale pubblicazione gli offrì la possibilità di essere conosciuto a livello internazionale, introducendo l’importanza del concetto di cure materne come requisito fondamentale per un sano sviluppo psicologico. Per cure materne si intendono non solo le risposte ai bisogni basilari del bambino ma soprattutto le risposte affettive alle richieste di accudimento e di protezione.
Pensi di soffrire di qualche disagio o vuoi migliorare il tuo benessere mentale?
Una carenza di tali cure, se reiterata nel tempo, può provocare gravi danni sulla formazione della personalità, riflettendo disturbi in età adulta (già lo psicologo austriaco Renè Spitz aveva evidenziato come causa di morte di alcuni bambini ospedalizzati, la carenza di cure materne). Bowlby infatti ipotizza che la perdita della figura materna, possa generare reazioni e processi psicopatologici. Tali reazioni e processi agiscono nell’adulto che risente di separazioni subite nella prima infanzia, e si manifestano come stati di angoscia o nella incapacità di stabilire rapporti profondi.
Questi sono, dunque, i contesti che spinsero l’autore a concentrare l’attenzione sugli effetti della separazione tra madre – bambino anche come indice possibile di psicopatologie future. In seguito la sua analisi si spostò dall’osservazione delle separazioni all’osservazione della relazione della diade madre-bambino utilizzando un approccio interdisciplinare che caratterizzerà il suo lavoro e lo porterà ad elaborare la sua tesi.
Schemi comportamentali del bambino
Gli studi di Bowlby e dei suoi collaboratori hanno evidenziato come i primi legami che ogni bambino instaura con le figure di riferimento, dipenda da un bisogno innato di entrare in contatto con gli appartenenti alla propria specie. Secondo l’autore, il bambino mette in atto schemi comportamentali finalizzati all’attaccamento con una figura significativa; tali schemi tendono a svilupparsi naturalmente quando le condizioni lo permettono.
Sulla base di questo Bowlby definisce il comportamento di attaccamento come quello che mostra una persona nel mantenere la prossimità e vicinanza ad un’altra ritenuta in grado di affrontare il mondo in modo più adeguato, è inoltre organizzato e regolato in senso cibernetico: parte da un esame delle circostanze; si attiva quando il bambino percepisce un pericolo in assenza della figura di riferimento e cessa con la vicinanza di quest’ultima.
Tale comportamento ha una funzione biologica di protezione ed è osservabile in tutti gli esseri umani. Bowlby considera l’attaccamento come una motivazione primaria, cioè un bisogno primario del bambino e non una conseguenza del soddisfacimento di bisogni alimentari o fisici. Il legame che unisce la madre al bambino non si instaura sulla base del soddisfacimento dei bisogni alimentari, piuttosto sulla base di predisposizioni innate alla continuità e stabilità del rapporto.
Lo stile di attaccamento influenza lo strutturarsi della personalità regolando l’adattamento all’ambiente e alle persone. A seconda di come il bambino vive questo rapporto con le figure significative si svilupperà il proprio senso di sé e di conseguenza la capacità di relazionarsi agli altri, di affrontare i momenti critici della vita o di cambiamento.
I modelli operativi interni
Bowlby si è concentrato su come le relazioni di attaccamento sperimentate nel primo anno di vita possano diventare dei modelli di organizzazione del sé e delle relazioni future di un individuo. Egli sostiene che durante le interazioni quotidiane con i genitori, il bambino costruisce rappresentazioni mentali di sé stesso e delle figure significative per lui. Queste rappresentazioni gli serviranno a creare delle aspettative e rendere prevedibili le relazioni che instaurerà.
Nel corso dell’interazione con l’ambiente, il bambino forma “dei modelli del mondo e di sé stesso nel mondo, con l’aiuto dei quali percepisce gli eventi, prevede il futuro e costruisce i propri programmi” (Bowlby, 1969). Questo avviene intorno al primo anno di vita; il bambino organizza le relazioni affettive in termini di Modelli Operativi Interni del sé e delle figure di attaccamento, nonché di sé in relazione con l’altro.
Questi modelli hanno la funzione di pianificare il comportamento di attaccamento, di strutturare, interpretare e organizzare le percezioni, i pensieri e i sentimenti verso di sé e verso i genitori. Sono modelli considerati complementari perché emergono dall’interazione dinamica della diade madre – bambino e hanno il potere di influenzarne la personalità.
La struttura di queste rappresentazioni misura il grado di fiducia che il bambino mostra nella relazione di attaccamento, la quale, a sua volta, gioca un ruolo fondamentale nella loro costruzione. La disponibilità di affetto mostrata dal genitore non si esaurisce con la mera presenza fisica; il processo che porta alla formazione di un modello adeguato risulta notevolmente complesso e basato sulla sintonizzazione affettiva (Share,1994, cit in Fonagy 2001), concetto che verrà approfondito più avanti.
Il termine “operativo” sta ad indicare come il modello sia utilizzato dall’individuo in caso di bisogno, quasi fosse uno strumento di categorizzazione della realtà relazionale in continuo sviluppo. In questo modo il bambino mette in atto dei comportamenti in base alle conoscenze acquisite nella relazione che lo guideranno a fare previsioni sulle risposte che comporteranno le sue azioni.
Ciò avviene al di fuori della consapevolezza. È un processo abituale, preverbale e automatico che nei primi anni di sviluppo è relativamente aperto al cambiamento.
In futuro, invece, sarà sempre più stabile e meno influenzabile a modificazioni (Bowlby, 1969). Infatti, col passare del tempo è sempre più difficile che avvengano rielaborazioni di tali modelli; solo eventi di importante contenuto psicologico potrebbero rendere possibile una loro riorganizzazione. Questo perché verranno utilizzati dall’individuo come punto di riferimento nelle esperienze relazionali future. Una caratteristica di questi modelli consiste nel dare una chiave di lettura per la comprensione del mondo influenzando l’esperienza sociale.
I pattern di attaccamento
Lo studio dell’etologia e la prospettiva evoluzionista, offrirono a Bowlby il sostegno per la costruzione del concetto di attaccamento, attribuendo notevole considerazione alle influenze genetiche e ambientali in ogni percorso evolutivo.
Nei suoi studi emerge prevalentemente l’importanza del ruolo dell’ambiente nel processo evolutivo, dimostrando che la ricerca del legame da parte del bambino nel suo primo anno di vita è un bisogno autonomo e distinto da quello alimentare e sessuale (come invece sosteneva la teoria dello sviluppo classica di Freud), che si orienta anch’esso verso la sopravvivenza ed è biologicamente determinato.
La teoria dell’attaccamento ha aperto la strada a innumerevoli ricerche soprattutto per via del suo carattere scientifico, scegliendo un metodo di studio rigoroso e il più possibile oggettivo delle condotte infantili e dei comportamenti degli altri soggetti affettivamente significativi.
Tuttavia, prima della preziosa collaborazione con Mary Ainsworth, Bowlby non aveva ancora articolato in modo sistematico la sua teoria. Le ricerche successive spostarono l’analisi dagli effetti della separazione precoce sui bambini alla qualità dell’interazione nella diade madre-bambino.
Gli studi di Mary Ainsworth
I primi studi di Ainsworth si focalizzarono sulla separazione madre-bambino in linea con le prime teorie bowlbiane, consistenti nell’osservazione diretta. L’autrice osservò particolari comportamenti nei bambini (da uno a tre anni) che, una volta in grado di muoversi autonomamente, facevano sempre riferimento alla madre per iniziare le loro esplorazioni.
L’allontanamento avveniva in maniera frequente quando il bambino poteva contare sulla presenza della figura materna; i bambini tornavano di tanto in tanto quando erano turbati o spaventati o in caso di ricerca di sicurezza e amore che li avrebbe stimolati a nuove esplorazioni. Nei casi in cui le madri si assentavano, le esplorazioni diventavano meno frequenti oppure cessavano direttamente.
Quando il bambino percepiva il timore che la madre si allontanasse il desiderio di esplorazione non si manifestava. Durante le sue osservazioni Ainsworth notò che nei comportamenti dei bambini si manifestava una costante: in presenza della madre esploravano; se la mamma se ne andava protestavano; quando la mamma tornava si calmavano.
Queste osservazioni la portarono ad elaborare il concetto di base sicura (Ainsworth, 1982) secondo il quale una madre normalmente attenta fornisce al figlio un punto di riferimento da cui egli può partire per esplorare e dal quale tornare in caso di bisogno.
Il processo di esplorazione attivato dalla curiosità del bambino comporta anche timore e incertezza, sentimenti dai quali il bambino ha bisogno di essere rassicurato per avere fiducia in sé stesso. Questo sistema permette il formarsi di un equilibrio dinamico tra i bisogni di protezione e il desiderio di esplorare il mondo, un sistema di regolazione tra madre e bambino che si sviluppa durante il primo anno di vita.
In base a queste osservazioni Ainsworth elabora nel 1978 una situazione sperimentale, la Strange Situation Procedure (SSP), con lo scopo di individuare delle costanti nell’organizzazione della relazione di attaccamento. Grazie a questa procedura che è stato possibile osservare una enorme quantità di condotte dei genitori e dei bambini che ha permesso l’identificazione e la classificazione dei diversi pattern nella relazione madre-bambino mettendo in risalto l’importanza delle differenze individuali nei modelli di relazione.
Sotto-tipi di attaccamento
L’Autrice ha iniziato i suoi studi sulle separazioni, osservando costruzione e rottura dei legami secondo le indicazioni degli studi bowlbiani dando però un taglio originale e innovativo. Con lo sviluppo della SSP ha permesso di valutare e misurare i pattern, contribuendo a rendere più chiaro ed elaborato il concetto di attaccamento (1971).
Attaccamento Insicuro – Evitante. Molti bambini evitano la vicinanza con la madre mostrando una certa indifferenza e rivolgono l’attenzione al gioco e all’ambiente. A sua volta la madre attiva rari segnali interattivi. Spesso non piangono durante la separazione e se lo fanno l’estraneo ha potere pari a quello della madre per consolarli. Se si verificano interazioni, sono distanti. Il bambino “evitante” appare ipoemotivo e non ha reazioni di rabbia. Quando la madre torna il bambino non si avvicina e non mostra comportamenti atti a ricercare conforto.
Attaccamento Sicuro. I bambini giocano tranquilli finchè la madre è presente. La loro attenzione è focalizzata coerentemente sia sul genitore che sull’attività esplorativa. Percepiscono la mancanza del genitore alla prima separazione e piangono alla seconda. Protestano e non accettano che l’estraneo li consoli. Il contatto col genitore li tranquillizza velocemente il quale sembra rassicurarli profondamente: si rivolgono alla madre e cercano la sua vicinanza (cercano di essere presi in braccio) prima di tornare al gioco esplorativo.
Attaccamento Insicuro – Ambivalente. Il bambino mostra segni d’ansia anche in presenza della madre, la quale sembra non riuscire a tranquillizzarlo e in qualche modo a contenerlo emotivamente. La separazione lo sconvolge e questo perdura anche al ritorno della madre che tenta invano di consolarlo. Sembra paradossalmente che il ricongiungimento con la madre, la cui separazione aveva prodotto angoscia, non produca effetti positivi. Il bambino si avvicina ma attraverso segni di rabbia (resistenza) o passività (immobilizzazione). Non riesce a tranquillizzarsi, non riprende l’esplorazione, continua a focalizzare la sua attenzione sul genitore e a piangere.
Un altro contributo importantissimo è stato quello di Mary Main. Durante gli studi nella SSP, Main osservò che vi erano alcuni bambini che non rientravano nei profili già individuati e introdurre un nuovo pattern: Attaccamento disorganizzato. Emergevano a volte dei comportamenti non classificabili secondo il modello tradizionale (insicuro-ambivalente, sicuro-autonomo, insicuro-evitante). Il bambino appariva angosciato dalla separazione e difficilmente tranquillizzato nell’episodio di riunione. Cercava il contatto con la madre con prepotenza e spesso la respingeva. Il gioco esplorativo era decisamente inibito.
Nel 1986 la ricercatrice insieme a George Solomon introdussero il concetto di disorganizzazione dell’attaccamento per descrivere quei comportamenti che non rientravano nella classificazione nei pattern individuati da Ainsworth. Inclusero il pattern D denominato irrisolto-disorganizzato.
Conclusioni
La qualità dell’attaccamento sperimentato nell’infanzia, può costituire un fattore protettivo nei confronti di un sano sviluppo cognitivo, emotivo e comportamentale, oppure un fattore di vulnerabilità come nei casi di attaccamento insicuro/ambivalente e insicuro/evitante o di rischio per esiti psicopatologici come nel caso dell’attaccamento disorganizzato/disorientato.
Pensi di soffrire di qualche disagio o vuoi migliorare il tuo benessere mentale?
Il Disturbo Ossessivo Compulsivo è una patologia spesso sottovalutata e di cui ci si vergogna. Si supera con tecniche di Esposizione e Prevenzione dei Rituali.
Ognuno di noi ha le sue piccole manie con le quali convive serenamente. Provate a vedere se vi riconoscete in alcune di queste: controllare più volte di aver chiuso la porta di casa. Allineare le pantofole ogni sera. Ma anche manie legate all’igiene o il dover sommare i numeri delle targhe delle auto che incrociamo camminando.
“Manie” e disagio
Questi comportamenti bizzarri possono diventare patologici quando occupano gran parte del nostro tempo. O quando, non potendoli mettere in atto perché qualcosa ci impedisce di farlo, viviamo un forte disagio. Tanto da compromettere la serenità e la vita di ogni giorno.
Nei casi più gravi si vive ogni giornata seguendo la propria “mania” e mettendo in secondo piano lavoro, famiglia e vita sociale. Tutto ciò crea molta sofferenza perché si è consapevoli di esagerare e di trascurare cose importanti. Tuttavia non si riesce a fare a meno di compiere certi rituali.
Pensi di soffrire di disturbo ossessivo compulsivo?
Capita che se non si sia sicuri di aver chiuso il gas e ci si senta costretti a tornare indietro per controllare. Ma non una sola volta (questo sarebbe normale): si arriva a farlo anche decine di volte! Ci sono rituali legati al concetto di sporco nei quali la persona sente la compulsione di lavarsi continuamente (le mani ad esempio, fino a decine di volte al giorno).
In alcuni casi i rituali devono essere messi in atto un numero preciso di volte: 3, 7, 15… In altri invece la compulsione è legata al contare e ricontare oggetti. O a controllare decine di volte una mail prima di inviarla. O ancora, al sistemare oggetti sulla scrivania o in uno scaffale in modo ossessivamente ordinato e simmetrico.
Le ossessioni più ricorrenti
Ma può trattarsi anche soltanto di azioni mentali che si è costretti a ripetere dentro di sé: contare, pregare, ripetere formule. Altrimenti si teme che non facendolo possano avvenire chissà quali disgrazie. Alcuni pazienti non compiono rituali ma hanno pensieri ossessivi, impulsi o immagini mentali che vengono percepite come sgradevoli o intrusive.
Il contenuto delle ossessioni può variare, i temi ricorrenti riguardano il timore di far del male ad altre persone (si ha paura di aggredire il partner, di far del male ai propri figli…). O di essere contaminati toccando il denaro o oggetti. Possono essere presenti pensieri ossessivi di natura sessuale (il timore di compiere gesti pedofili, o di scoprirsi improvvisamente). O il pensiero ossessivo sull’amare o meno il proprio partner (DOC da relazione).
Una patologia sottovalutata
L’elemento in comune delle ossessioni è che sono impulsi non voluti, che producono paura, disgusto o senso di colpa. Tutti questi comportamenti fanno parte di una patologia ben precisa: il Disturbo Ossessivo Compulsivo. Un disturbo legato al controllo degli impulsi di cui soffre circa il 3% della popolazione. E spesso senza esserne consapevole, perché questa patologia viene frequentemente mal diagnosticata o sottovalutata.
All’inizio l’esecuzione di questi comportamenti ridurre l’ansia che si avvertirebbe senza compierli. Sfortunatamente però, a lungo termine li rinforza e li peggiora. Ciò porta a un aumento delle compulsioni (azioni irrefrenabili) che a sua volta conduce ad avere ancora più ansia e più ossessioni. È un disturbo che può tendere alla cronicizzazione anche se con fasi altalenanti di miglioramento e di peggioramento. E raramente è episodico.
La psicoterapia cognitivo comportamentale per trattare il DOC
Dall’insorgenza alla ricerca di aiuto spesso passano anche molti anni, perché la persona non sa spiegare bene la compulsione che sente o se ne vergogna. Il trattamento d’elezione, come attestano i documenti diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è costituito dalla Psicoterapia Cognitivo Comportamentale basata su tecniche di Esposizione e Prevenzione dei Rituali. Nelle sedute il terapeuta può avvalersi della pratica della Mindfulness, che porta il paziente a prestare attenzione intenzionalmente al momento presente e in modo non giudicante, vivendo il qui e ora, momento per momento (Kabat-Zinn, 2003).
Pensi di soffrire di disturbo ossessivo compulsivo?
https://psithaka.com/wp-content/uploads/2021/10/Disturbo-ossessivo-compulsivo-psithaka.jpg10001500vinzhttps://psithaka.com/wp-content/uploads/2021/08/psithaka-fav-180x180.pngvinz2021-10-12 11:44:022021-10-13 11:14:37Terapia e Mindfulness per il Disturbo Ossessivo Compulsivo
Ansia, angoscia, umore basso, stanchezza, disturbi del sonno, disturbi alimentari. La terapia può essere un’alleata per affrontare la perdita di un caro.
Il lutto costituisce un’esperienza ineliminabile nell’esistenza di ogni essere umano, ed è causa di grande sofferenza per quasi tutte le persone che lo subiscono. Nella maggior parte dei casi gli individui sono in grado da soli di adattarsi alla condizione, ma esistono dei fattori di rischio che possono influenzare l’evoluzione del lutto.
Tra questi ricordiamo: le caratteristiche della persona che ha subito il lutto (genere, età, personalità o religione, cultura e gruppo sociale di appartenenza), il tipo di morte, il grado di parentela e il sostegno al quale la persona potrà attingere, precedenti lutti non risolti, o una relazione ambivalente con la persona deceduta.
Le 6 fasi del lutto
Quando perdiamo una persona amata sentiamo di aver perso una parte di noi stessi, diventiamo vulnerabili e sperimentiamo un senso di vuoto incolmabile. Il lutto normalmente attraversa 6 tappe.
1) Rendersi conto della perdita.
2) Reagire alla perdita.
3) Riesaminare il rapporto
con la persona deceduta in modo più realistico possibile.
4) Abbandonare i vecchi attaccamenti col defunto.
5) Sviluppare un nuovo attaccamento col defunto adattandosi alla nuova realtà.
6) Reinvestire verso nuovi progetti di vita.
Solitamente 18 mesi sono il tempo necessario all’accettazione. Ma quando sono presenti più fattori di rischio questo tempo può non essere sufficiente. Tanto da bloccare il naturale processo di elaborazione.
Alcuni indizi sono fondamentali per riconoscere che si è di fronte ad un lutto non risolto.
Anche dopo molti anni dalla perdita, non si riesce a parlare della persona deceduta senza provare un cordoglio intenso. Come se fosse accaduto da poco. Eventi anche banali, stimolano una reazione di dolore eccessivo.
Difficoltà a separarsi dagli oggetti appartenuti alla persona defunta (lasciare intoccata la stanza della persona cara). O all’opposto sbarazzarsi rapidamente di ogni cosa.
Cambiamenti repentini dello stile di vita – identificarsi con tutto ciò che faceva il defunto.
Fobia per la morte o per la malattia di cui soffriva la persona cara.
Il setting terapeutico rappresenta per il paziente in lutto un contesto protetto dove poter esprimere liberamente e senza alcun timore del giudizio i propri sentimenti, non soltanto il dolore, ma anche tutti quei sentimenti legati a conflitti irrisolti o emozioni ambivalenti provate verso il defunto. La sofferenza per la perdita di una persona cara può avere ripercussioni a livello fisico, come spossatezza, disturbi del sonno, pianto incontrollabile, disturbi alimentari, aumento della pressione, ansia costante, interruzione del ciclo mestruale, abbassamento delle difese immunitarie, umore costantemente basso, sensazione di angoscia e incapacità di affrontare le normali richieste della vita quotidiana.
Un lutto quindi può essere presente una componente traumatica tale da portare a una patologia. Nell’evento luttuoso con componente traumatica, è come se la persona fosse ancorata costantemente al momento della perdita e non partecipasse più al momento presente. Ma nello stesso tempo evita ogni ricordo che lo riporti all’evento luttuoso. Spesso è presente rabbia e attribuzione di colpe verso se stesso o ad altri, in modo del tutto irrazionale. E una ruminazione continua (rimuginazioni mentali) che blocca ancor di più la normale evoluzione del lutto.
EMDR ed elaborazione del lutto
Nei casi di lutto complicato, l’approccio terapeutico più indicato è l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari), un approccio terapeutico utilizzato per il trattamento dei traumi. Dopo una o più sedute di EMDR, i ricordi disturbanti legati al lutto traumatico, subiscono una desensibilizzazione, con una diminuzione evidente dell’impatto emotivo negativo. Anche quando siano passati molti anni dal lutto, il cambiamento può avvenire in modo molto rapido.
I pensieri e le immagini intrusive solitamente si attutiscono o spariscono e le sensazioni fisiche si riducono di intensità. L’EMDR permetterà al paziente di vivere il lutto con maggiore accettazione e senso di pace interiore. Il lutto traumatico si potrà dire risolto quando il paziente arriverà ad avere una rappresentazione interna adattiva della persona scomparsa. Così l’attaccamento non sarà perso ma solo trasformato. Le emozioni sane ed appropriate del lutto non verranno eliminate. Il paziente sarà però in grado di accettare la perdita e di ripensare a eventi vissuti con la persona cara, ricordando esperienze positive condivise.
“Fissare la morte in faccia, con l’aiuto di una guida, non solo mitiga il terrore, ma rende l’esistenza più intensa, più preziosa, più vitale. Un simile approccio alla morte ci fornisce istruzioni per la vita” (Irvin D.Yalom 2008).
https://psithaka.com/wp-content/uploads/2021/10/psithaka-lutto.jpg11251500vinzhttps://psithaka.com/wp-content/uploads/2021/08/psithaka-fav-180x180.pngvinz2021-10-12 10:37:342021-10-14 10:05:38Elaborare un lutto: psicoterapia o EMDR possono aiutare
Bambini disattenti e irrequieti. Adolescenti con comportamenti rischiosi. Adulti con scarsa capacità di pianificare. Come riconoscere e diagnosticare l’ADHD
Alcuni bambini hanno difficoltà nel gestire il tempo per organizzare le proprie attività, non riescono a ricordare gli argomenti che hanno studiato oppure si distraggono facilmente quando fanno i compiti. Bambini che mostrano irrequietezza motoria e non stanno mai fermi. Queste caratteristiche contraddistinguono il disturbo ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione Iperattività). Tale disturbo si manifesta nel periodo dello sviluppo e comporta una compromissione nel funzionamento personale, scolastico e sociale. Vediamo le caratteristiche che lo compongono nello specifico.
I sintomi principali
Disattenzione. È evidente nello svolgimento dei compiti, il bambino commette errori di distrazione. Ha difficoltà a concentrarsi sul compito per tempi lunghi e sembra avere la “testa tra le nuvole”. Per questo non riesce a organizzare le sequenze d’azione per gestire i compiti. Il risultato è che non conclude le attività e questo comporta elevati livelli di frustrazione. Da qui possono scaturire comportamenti di evitamento rispetto a tali richieste.
Impulsività/Irrequietezza. Il bambino non sa stare fermo, si alza dalla sedia, tamburella con le mani sul banco o muove i piedi. Non rispetta i giochi in cui deve rimanere seduto, non rispetta i turni né di parola, è molto loquace. Può avere esplosioni di rabbia incontrollata che possono essere seguiti da sensi di colpa. Inoltre, sono presenti elevati livelli di sensation seeking. Così i bambini amano fare esperienze nuove e rischiose a causa delle loro difficoltà di pianificazione. In sostanza, hanno difficoltà nellavalutazione dei costi e dei benefici delle azioni.
Le diverse forme di ADHD
Nell’ADHD si differenziano tre sotto-tipi del disturbo:
Disattentivo prevalente. Quando è presente una maggior difficoltà nell’attenzione sostenuta, mancanza di perseveranza e disorganizzazione.
Iperattivo prevalente. Sono presenti eccessiva attività motoria, loquacità, difficoltà a rispettare i turni e una tendenza a compiere azioni affrettate.
Manifestazione combinata. È la più frequente e si manifesta quando sono presenti entrambi i precedenti sintomi. Il disturbo è diffuso nel 3-5 % della popolazione, con età di insorgenza dai 4 ai 13 anni.
La manifestazione clinica del decorso dell’ADHD cambia con le tappe di sviluppo e varia in base ai fattori bio-psico-sociali. Tra questi: età della diagnosi, terapie effettuate, ambiente di vita familiare e sociale, e comorbilità con altri disturbi. Per ultimi i fattori temperamentali. Nell’infanzia sono molto frequenti l’eccessiva attività motoria e la disattenzione. Nell’adolescenza aumentano invece i livelli di irrequietezza e impulsività, talvolta associati a comportamenti devianti e a una tendenza a incorrere in situazioni a rischio psicosociale (piccoli furti, risse, uso di alcool e sostanze), oppure sono presenti sensazioni interiori di nervosismo o impazienza. In età adulta diminuiscono la componente disattentiva e l’agitazione psicomotoria, ma rimane una tendenza alla scarsa pianificazione.
Interazione tra e ADHD e altri disturbi
L’ADHD è spesso in comorbilità (presenza di più diagnosi contemporaneamente) con le difficoltà scolastiche inerenti all’acquisizione della letto-scrittura, oppure con il disturbo Oppositivo-Provocatorio in età evolutiva e della Condotta in adolescenza, a causa dell’impulsività e irrequietezza. Le difficoltà a mantenere gli standard scolastici e il giudizio sociale legato ai comportamenti del bambino, che spesso viene erroneamente visto come maleducato, possono portare a disturbi d’ansia e dell’umore.
La Direttiva del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca 27 Dicembre 2012 ha introdotto il concetto di BES (Bisogni Educativi Speciali) per i bambini con disturbo dell’ADHD e altri disturbi. Questa normativa garantisce una gestione del programma scolastico e degli apprendimenti adeguata alle loro competenze e variabile in maniera individuale e a seconda il livello di gravità. I casi di ADHD grave (in comorbilità con disturbo oppositivo/provocatorio o della condotta) possono usufruire dell’insegnante di sostegno e del PEI (Piano Educativo Individualizzato), dove vengono prefissati gli obiettivi di apprendimento che un bambino deve raggiungere.
I casi di ADHD in comorbilità con i DSA (Disturbo Specifico dell’Apprendimento) usufruiscono della legge 170/2010 pertanto hanno diritto ad avere redatto un PDP (Piano Didattico Individualizzato). Nei casi con ADHD lieve, a discrezione degli insegnanti e della famiglia, vengono adattati i materiali e gli ambienti alle difficoltà di apprendimento e può essere redatto un PDP.
https://psithaka.com/wp-content/uploads/2021/10/psithaka-ADHD.jpg10001500vinzhttps://psithaka.com/wp-content/uploads/2021/08/psithaka-fav-180x180.pngvinz2021-10-12 09:26:392021-10-18 12:10:44Il Disturbo da Deficit di Attenzione Iperattività (ADHD)
Ecco come sconfiggere preoccupazioni, tachicardia, attacchi di panico, agitazione, tensione muscolare e disturbi del sonno con l’aiuto del terapeuta.
Quante volte ci è capitato di dire: “Sono sempre in ansia quando succedono queste cose”? Oppure: “Sono nervoso/a, sono sempre in ansia”. O ancora: “Quando penso all’esame da sostenere mi viene l’ansia!”. Ma l’ansia è sempre uno stato d’animo negativo e patologico? Oppure a volte può essere positiva? Analizziamo nello specifico.
L’attesa di un evento
L’ansia è un’emozione caratterizzata da una spiacevole sensazione di preoccupazione, associata ad un atteggiamento di attesa di un evento. Pertanto una delle funzioni fondamentali dell’ansia è quella di allertare le nostre capacità anticipatorie. In tal modo attiviamo la riorganizzazione dei processi mentali e affettivi di fronte a nuovi contesti, situazioni e obiettivi. L’ansia è un potenziale fattore di adattamento alle nuove situazioni e incide sulle nostre capacità di riuscita. Affrontare una prova, come un esame universitario per esempio, naturalmente può essere più “facile” se i processi di attenzione e concentrazione vengono attivati positivamente.
L’ansia, però, diventa disturbo nel momento in cui perde la sua funzione di adattamento positivo e diviene uno stato emotivo caratterizzato da preoccupazioni persistenti ed eccessive riguardanti diversi ambiti. Essa diviene di fatto l’anticipazione di una minaccia. E associandosi a comportamenti di vigilanza, prudenza o di evitamento, rischia di inficiare il rendimento lavorativo o scolastico. In tal caso l’individuo può sperimentare sintomi fisici come irrequietezza, sensazioni di agitazione o tensione. Oltre a tachicardia, facile affaticamento, difficoltà di memoria, irritabilità, tensione muscolare e disturbi del sonno.
I diversi tipi di disturbi legati all’ansia
Per stabilire se l’ansia sia adattiva o patologica si effettua un assessment di valutazione, comprensivo di colloqui e test standardizzati. I disturbi d’ansia costituiscono una categoria diagnostica ampia. Alcuni quadri, inoltre, si sviluppano in età infantile e tendono a persistere nell’età adulta se non vengono curati. Di seguito vengono descritti alcuni dei più frequenti disturbi d’ansia.
I bambini con più di 6 anni con un comportamento “appiccicoso”, che mostrano eccessiva paura o si rifiutano di uscire da casa per andare a scuola potrebbero avere un Disturbo d’ansia da separazione. Ogni volta che si allontanano da casa o dalla persona di riferimento possono lamentare malesseri anche fisici, veri o presunti.
Quando un bambino non parla in situazioni sociali specifiche in cui ci si aspetti che parli (per es. scuola) siamo di fronte al mutismo selettivo. Questa condizione interferisce con i risultati scolastici o con la comunicazione sociale. L’esordio avviene di solito prima dei 5 anni ma il disturbo può non giungere all’attenzione clinica fino all’inizio della scuola.
Fobia Specifica
Quando sono presenti paura o ansia marcate e spropositate verso un oggetto o situazione specifiche (per es. volare, altezze, animali, ricevere un’iniezione, vedere il sangue) parliamo di Fobia Specifica. Per prevenire o ridurre intenzionalmente il minimo contatto con gli oggetti fobici temuti sono messi in atto comportamenti di evitamento attivo. I tassi di prevalenza sono circa del 5% nei bambini e di circa 16% negli adolescenti dai 13 ai 17 anni. Le femmine risultano più colpite rispetto ai maschi, con rapporto di 2:1.
Fobia sociale
Talvolta si sperimentano sentimenti di imbarazzo e di umiliazione. In altri casi si teme di essere rifiutati in contesti sociali e viene manifestata paura o ansia sproporzionata durante le interazioni sociali. Sostenere una conversazione in pubblico, oppure eseguire una prestazione (per esempio un discorso), o ancora essere osservati (per esempio mangiare o bere in pubblico) può essere percepito dalla persona come ansiogeno. In tali casi si può parlare di Disturbo d’ansia Sociale o Fobia Sociale. In queste situazioni l’individuo può sperimentare ansia anticipatoria e mettere in atto comportamenti di evitamento. Nei bambini l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi di collera, con immobilizzazione (freezing), aggrappamento (clinging) oppure ritiro (shrinking).
Attacco di panico
Quando una persona sperimenta una comparsa improvvisa di paura o disagio intensi unita a sintomi fisici quali palpitazioni, tachicardia, sudorazione, dispnea, dolore al petto, sensazione di svenimento o di “testa leggera”, sensazione di irrealtà (come per esempio, quella di sognare) può dire di avere avuto un Attacco di panico. La persona che ha tale disturbo ha il pensiero persistente che l’attacco di panico possa manifestarsi nuovamente e che possa avvenire in pubblico. Per tali motivi vengono messi in atto comportamenti di evitamento per impedire che si verifichi un attacco di panico.
Agorafobia
L’individuo che teme o evita situazioni in cui sarebbe difficile fuggire, come trovarsi in spazi chiusi (per es. ascensore, negozi) oppure in luoghi pubblici (ad es. trasporti pubblici, stare in fila o tra la folla) o paura di ricevere soccorso nel caso abbia un attacco di panico, ha il Disturbo di Agorafobia. Ogni anno l’1,7 %° di adolescenti e adulti riceve tale diagnosi. Nel 30% della popolazione sono presenti segni di ansia e di agorafobia prima di un esordio di attacco di panico.
La terapia cognitivo-comportamentale risulta quella più efficace sui disturbi d’ansia perché lavora sulla valutazione cognitiva disfunzionale della persona. Sia sull’evento che sulla conseguente attivazione fisiologica. Le tecniche più utilizzate sono il rilassamento progressivo, il training autogeno, il problem solving, l’esposizione graduale. A cui si ggiunge la ristrutturazione cognitiva.
I bambini affetti da Disturbi Specifici dell’Apprendimento non sono pigri (e neanche i loro insegnanti). Ecco come ottenere una diagnosi in modo corretto.
I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (anche conosciuti come DSA) si manifestano in età infantile con l’ingresso a scuola, e comportano una serie di difficoltà nell’uso di abilità scolastiche quali lettura, scrittura e calcolo matematico.
Secondo il Manuale Diagnostico DSM 5, la prevalenza di DSA nel mondo è di 5%-15% tra i bambini in età scolare trasversalmente a linguaggi e culture differenti (APA, DSM 5, 2014). In Italia gli ultimi dati MIUR affermano che gli alunni con DSA sono 298.114, pari al 4,9% (MIUR, Novembre 2020).
Ma quando possiamo parlare di effettive “difficoltà”? Generalmente quando le abilità scolastiche del bambino non sembrano essere propriamente in linea rispetto a quanto ci si aspetterebbe per l’età anagrafica, per la classe frequentata e per la qualità di istruzione ricevuta.
Le diverse forme di DSA
Andando più nel dettaglio, in base alle criticità individuali riscontrate, è possibile distinguere il disturbo specifico dell’apprendimento come segue:
Dislessia: quando il bambino presenta una lettura lenta, non accurata e poco fluente. Risultano scarse le abilità di decodifica e spelling di parole o di “non parole” (che, cioè, non esistono nel vocabolario). Ma anche di numeri e simboli.
Disortografia: quando notiamo una minore correttezza ortografica nell’uso di punteggiatura grammatica ed espressione scritta che appare poco chiara e disorganizzata.
Disgrafia: nei casi di lentezza nella scrittura o di scarsa qualità del tratto grafico. Oppure di difficoltà nel rispettare spazi, margini e orientamento orizzontale dello scritto.
Discalculia: quando si riscontrano difficoltà nell’elaborazione di informazioni numeriche, nell’imparare formule e nell’eseguire calcoli in modo accurato e fluente.
Queste forme di DSA possono presentarsi sia singolarmente che in concomitanza l’una con l’altra. Questo dipenderà dalle specifiche caratteristiche neurobiologiche del bambino.
Conosci un minore che potrebbe soffrire di Disturbi Specifici dell’Apprendimento?
Quando si parla di Disturbi Specifici dell’Apprendimento è importante sfatare alcuni miti: innanzitutto non si tratta di bambini “pigri”. Hanno anzi un quoziente intellettivo pienamente nella norma ma soffrono di un disturbo neurobiologico determinato geneticamente. Per questo incontrano maggiori difficoltà nell’automatizzare specifiche abilità di apprendimento.
Inoltre la presenza o meno di DSA non dipende dalla qualità dell’insegnamento ricevuto o da condizioni socioculturali. I fattori ambientali possono certamente rappresentare dei fattori esacerbanti, ma non costituiscono la causa scatenante di un DSA.
La diagnosi di DSA
Pertanto, per porre una diagnosi chiara ed univoca di DSA è necessario rivolgersi a professionisti esperti in valutazioni neuropsicologiche. Attraverso la somministrazione di test standardizzati, questi potranno inquadrare la condizione degli apprendimenti e proporre un piano di intervento mirato. La diagnosi di DSA in Italia può essere posta alla fine della seconda elementare per dislessia, disortografia e disgrafia ed alla fine della terza elementare per la discalculia (Consensus Conference, 2010). È tuttavia possibile valutare un bambino anche prima di tale soglia d’età, al fine di inquadrare precocemente gli indizi di un probabile DSA e mettere in atto fin da subito alcune accortezze didattico-psico-educative.
È di fondamentale importanza porre una diagnosi di DSA per adeguare l’assetto didattico alle specifiche esigenze educative del bambino ed andare così a minimizzare gli effetti secondari di questa patologia, ossia ansia da prestazione, difficoltà relazionali, sintomatologia depressiva, problemi comportamentali e bassa autostima. Per questo motivo è utile predisporre per i bambini con DSA anche un percorso supporto psicologico.
Conosci un minore che potrebbe soffrire di Disturbi Specifici dell’Apprendimento?
https://psithaka.com/wp-content/uploads/2021/10/psithaka-DSA.jpg10001500vinzhttps://psithaka.com/wp-content/uploads/2021/08/psithaka-fav-180x180.pngvinz2021-10-11 15:11:022021-10-13 11:35:11Dislessia o disgrafia nei bambini: quando si tratta di DSA?
Causano mal di testa, calo del desiderio sessuale, dolori al petto, tachicardia, mal di stomaco. Le soluzioni cliniche più efficaci contro i disturbi da stress.
“Sei troppo stressato”, “Questa situazione mi sta stressando”, “Che stress!”. Sono espressioni piuttosto comuni, che stanno ad indicare un senso di stanchezza, di pesantezza o anche di allarme. Ma che cos’è di fatto lo stress?
Scientificamente con il termine stress si indica una condizione in cui la persona percepisce uno squilibrio tra le sollecitazioni esterne e le risorse a sua disposizione. Ci sentiamo stressati quando ci viene richiesto di fare qualcosa a cui riteniamo di non poter far fronte. E questo a causa di risorse che riteniamo insufficienti. Non importa se il compito in questione sia di natura emotiva, cognitiva o sociale. Il denominatore comune è che la persona stressata percepisce tale compito come eccessivo.
Distress ed eustress
Esistono alcuni fattori che tipicamente vengono percepiti come stressanti dalla maggioranza delle persone. Un lutto, una malattia, un ricovero (per sé o per persone care), la fine di una relazione, un conflitto, problemi finanziari o la mancanza di un lavoro… Queste sono le principali fonti di stress negativo (distress), che genera in noi una condizione di preoccupazione e impotenza.
Vi sono poi altri fattori, stressanti anch’essi, che generano invece un tipo di stress positivo, ci stimolano e provocano un’attivazione propositiva ed energica. Pensiamo ad esempio all’iniziare un nuovo lavoro, al ricevere una promozione o al pianificare il proprio matrimonio. Di certo ci sentiamo stressati, ma sentiamo in noi crescere quello che viene chiamato eustress, o appunto stress positivo.
Una condizione soggettiva
Tuttavia occorre specificare che ognuno valuta un compito o un evento come stressante basandosi su un metro di giudizio soggettivo. Pertanto la reazione di stress deriva da come il singolo individuo percepirà la fonte dello stress (o “stressor”) in virtù delle caratteristiche di personalità, della propria storia di vita o delle sue paure.
Pensiamo ad esempio all’inizio di una convivenza: per qualcuno potrà costituire un momento di grande energia, per altri la sola idea del trasloco comporterà un aumento dell’ansia. Dunque possiamo dedurre che uno stesso evento costituisce uno stressor per qualcuno e non lo è assolutamente per altri. E non è tutto. La nostra vulnerabilità agli agenti stressanti può variare nel tempo a seconda delle esperienze e delle attitudini acquisite.
Sintomatologie e reazioni allo stress
Così come la fonte dello stress può essere molteplice, allo stesso modo anche la reazione allo stress può assumere forme diverse: possono verificarsi sintomatologie fisiche come mal di testa, dolori al petto, tachicardia, disturbi allo stomaco (diarrea, nausea, costipazione), aumento della sudorazione o mal di schiena, tensione alle spalle, perdita di appetito o calo del desiderio sessuale.
Altresì lo stress genera reazioni nel nostro umore, rendendoci più nervosi, infelici, arrabbiati o suscettibili. Tra le reazioni comportamentali troviamo il serrare i denti, mangiare compulsivamente, assumere alcol o trattare male gli altri. Infine esistono sintomi di tipo cognitivo, ci sentiamo distratti, non riusciamo a focalizzarci sui compiti, incontriamo difficoltà nel ragionare in modo lucido, abbiamo una ridotta capacità di problem solving o vediamo venir meno la nostra creatività.
Il supporto terapeutico come soluzione
Essere stressati non è una condizione da sottovalutare e in alcuni casi può provocare l’insorgenza di molteplici disturbi psicologici. Il disturbo acuto da stress (DAS) ed il disturbo post traumatico da stress (PTSD), ma anche il disturbo da stress lavoro-correlato ed il conseguente burnout ne sono validi esempi.
Tali disturbi comportano una profonda ed invalidante condizione di disagio psichico, emotivo, affettivo ma anche sociale e comportamentale. Per questa ragione può essere utile ricercare un supporto terapeutico. In tal modo avremo la possibilità di inquadrare quali sono gli elementi che più frequentemente ci fanno sperimentare stress. E ciò ci consentirà di focalizzarci meglio sulle risorse interne ed esterne di cui disponiamo per farvi fronte.
In conclusione, la terapia cognitivo comportamentale, la mindfulness e l’EMDR costituiscono attualmente le soluzioni cliniche più efficaci nel supporto di persone affette da questa tipologia di disturbi.
https://psithaka.com/wp-content/uploads/2018/04/psithaka-stress.jpg9351500vinzhttps://psithaka.com/wp-content/uploads/2021/08/psithaka-fav-180x180.pngvinz2021-04-17 22:21:532021-10-13 11:08:46Psicoterapia, EMDR e mindfulness per combattere lo stress